le parole tra noi moderne

Sull’ultimo numero di Topolino (che, a vederne la copertina al rovescio, viene il timore di dover ancora patire il bilancio di Raf) la lead story è dedicata a Videoduck / Mtv ad ai suoi vj (Andy Apezzi, Viktoria Duckabell…) paperizzati dall’ottima Ziche.

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Tra artisti disneyamente ribattezzati (Mike Giorgiol, Sloop Frog, Maraja Curry) sbarca nel terzo millennio Paperetta Yé Yé che, sempre troppo avanti, è sulla location per un servizio (?) di vlogging.

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Il paperume, giustamente, s’interroga su quale potere le permetta di far entrare parenti in area riservata e qui prende il dubbio se su Topolino sono talmente avanti da considerare ovvio l’accredito stampa d’un blogger oppure se sono così approssimativi da rovinare la percezione di cosa sia un blog nelle giovanissime generazioni.

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Il dubbio rimane fino alla fine: cosa sarà l’evento clamoroso che la Strambelli del patrio fumetto andrà a postare: l’inizio d’un anno enne? o la panciata presa da Piggy Bop all’ennesimo stage diving?

il fascino dell’inspiegabile

Giorni fa, all’inizio del… cammino di dolori, ho letto un vecchio libro, recentemente riedito, su Gigi Meroni, pedatore tra i miei lari (consiglio però anche agli agnostici la lettura de “La farfalla granata” di Nando Dalla Chiesa, lbro ottimamente scritto). Da allora ho cominciato a rimuginare su alcuni punti emblematici di quella storia vecchia ma per molti – non necessariamente tifosi professionisti, quale io infatti non sono – ancora viva.

Di tutta la parabola sportiva ed umana di Meroni, due sono le coincidenze (per dar loro un nome laico, ché si potrebbero dire “segni del destino”, manifestazioni del karma e via spargendo incensi) che mi hanno sempre colpito: una in negativo, l’altra in positivo, entrambe legate alla sua morte. Quella negativa è la circostanza – tristemente nota a tutta la teppa granata – che il guidatore che investì Meroni, tal Attilio Romero detto Tilli, divenne anni dopo presidente della squadra, contribuendo ad uccidere anch’essa: sommo mistero doloroso della ciclica sfiga torinista.

Il fatto positivo (e che più profuma d’incenso) fu la tripla marcatura preconizzata dal morituro e poi puntualmente realizzata da Nestor Combin, un calciatore bravo ma non eccelso ed inoltre febbricitante, nel derby della domenica successiva. L’ultima rete della goleada – un 4-0 mai più ripetuto contro i pigiami – fu realizzata da Alberto Carelli, che indossava la maglia numero 7 di Meroni (leggete il ricordo di quel derby scritto da un ossimoro vivente: il gobbo gentiluomo Darwin Pastorini).

Combin, dicevamo, era stato stuzzicato da Meroni, poco prima dell’incidente, a ripetere la tripletta appena rifilata alla Sampdoria nel derby previsto la domenica successiva: quante possibilità ci sono che un attaccante, per quanto bravo, possa segnare due triplette consecutive in campionato? quante, se l’attaccante in questione ha 39 di febbre? Eppure, contro ogni logica, Combin segnò quella tripletta e, in seguito, visse coltivando il ricordo dell’amico che gli aveva indicato la via del prodigio.

Ora lascio la parola al buon Nestor: un ricordo pubblicato da La Stampa in occasione del quarantennale dalla morte di Gigi, lo scorso 15 ottobre. Degna chiosa d’un post che gronda sentimento e romanticismo e flirta con l’occulto per dire, semplicemente, che a volte il mistero – mai snobbando gli spalti popolari – si riveste d’una sintassi così precisa da nutrire il rispetto per il dubbio in una vita intera. Perché essere senza dio andrà bene, se non sei tipo da nomenclature, ma essere un figlio di puttana al soldo del puro raziocinio, grazie: mai.

c’è un antropologo culturale in sala?

Un po’ per l’attrattiva del rilassante lusso che promette, un po’ come esperimento sociologico, mi piacerebbe – avendo molti soldi – trascorrere una settimana in questo vero-finto-vero villaggio carinziano, perché vorrei toccare con mano quello che pare essere una nuova forma di turismo e, insieme, autosuggestione delle frange sensibili della classe altoborghese.

Fatevi un giro nei meandri del sito e vedrete come nulla sia lasciato al caso: il villaggio è completamente “autentico” per tecniche e materiali (ha vinto un frego di premi per il “recupero dell’eredità culturale” ed altre simili fregnacce) almeno quanto il suo scopo è completamente farlocco. Una finzione verniciata d’autenticità mediante il recupero di prassi e logiche d’altri tempi cui s’abbinano – come si dice – tutti i moderni comfort.

Sono affascinato da queste operazioni almeno da quando, pedalando la scorsa estate nell’entroterra d’Albenga, non incocciai nell’omologo marittimo del villaggio austriaco, ovvero il borgo medievale telematico “Colletta”: un gioiello di recupero urbanistico, al servizio del recupero umanistico di possessori di berline tedesche (abilmente celate in uno scasso della montagna) in prevalenza nordeuropei.

Il fascino che subisco, ammirando queste cattedrali del benessere edonistico ammantato di consapevolezza sociale, nasce dalle evidenti contraddizioni risolte in un acuto business plan di cui potrei sentirmi target. Questi luoghi della rinascita spirituale si rivolgono infatti a persone che dovrebbero avere: molto buon gusto; molta sensibilità ai temi ambientali; molto danaro (quest’ultimo è il mio vero grado di separazione: donde il tormento intellettuale figlio dell’invidia).

Credo però difficile che si possa autenticamente far convivere questa triade, perché una vera sensibilità ai temi dell’ambiente e del recupero difficilmente si concilia alla ricchezza, se questa non sia ereditata (a meno, forse, di lavorare nell’ecologia. O nell’ecomafia). Immagino più plausibile una mera funzione di balsamo edonistico per le contraddizioni di chi – buone letture, animo nobile, talento autoassolutorio – ricaverà valore aggiunto dalla coniugazione del proprio benessere con un’apparenza di sostenibilità sociale.

Non la tirerò per le lunghe, per quanto vorrei avvitarmi ancora in questa formidabile contraddizione, e vengo al punto: come si possono chiamare questi luoghI? Sono artefatti come i non-luoghi, ma esclusivi e non popolari, ovvero standardizzati sì, ma su aspettative alte; sono autentici in senso filologico, ma non più dedicati allo scopo originario cui erano destinati pietre, legni, coibentazioni in lana, tetti in scandole di pino e via strologando.

Insomma sono luoghi veri ma finti, finti ma veri e, sinceramente, essendo escluso dal balletto, non so se mi facciano più simpatia gli aristocratici che raggiungono la baita con l’ecologica Toyota Prius od i veri truzzi che, non usi all’ipocrisia, si dirigono al Billionaire in inquinantissimo suv. Ad ogni buon conto, serve un nome: qualcuno telefoni a Marc Augé.