Un po’ per l’attrattiva del rilassante lusso che promette, un po’ come esperimento sociologico, mi piacerebbe – avendo molti soldi – trascorrere una settimana in questo vero-finto-vero villaggio carinziano, perché vorrei toccare con mano quello che pare essere una nuova forma di turismo e, insieme, autosuggestione delle frange sensibili della classe altoborghese.
Fatevi un giro nei meandri del sito e vedrete come nulla sia lasciato al caso: il villaggio è completamente “autentico” per tecniche e materiali (ha vinto un frego di premi per il “recupero dell’eredità culturale” ed altre simili fregnacce) almeno quanto il suo scopo è completamente farlocco. Una finzione verniciata d’autenticità mediante il recupero di prassi e logiche d’altri tempi cui s’abbinano – come si dice – tutti i moderni comfort.
Sono affascinato da queste operazioni almeno da quando, pedalando la scorsa estate nell’entroterra d’Albenga, non incocciai nell’omologo marittimo del villaggio austriaco, ovvero il borgo medievale telematico “Colletta”: un gioiello di recupero urbanistico, al servizio del recupero umanistico di possessori di berline tedesche (abilmente celate in uno scasso della montagna) in prevalenza nordeuropei.
Il fascino che subisco, ammirando queste cattedrali del benessere edonistico ammantato di consapevolezza sociale, nasce dalle evidenti contraddizioni risolte in un acuto business plan di cui potrei sentirmi target. Questi luoghi della rinascita spirituale si rivolgono infatti a persone che dovrebbero avere: molto buon gusto; molta sensibilità ai temi ambientali; molto danaro (quest’ultimo è il mio vero grado di separazione: donde il tormento intellettuale figlio dell’invidia).
Credo però difficile che si possa autenticamente far convivere questa triade, perché una vera sensibilità ai temi dell’ambiente e del recupero difficilmente si concilia alla ricchezza, se questa non sia ereditata (a meno, forse, di lavorare nell’ecologia. O nell’ecomafia). Immagino più plausibile una mera funzione di balsamo edonistico per le contraddizioni di chi – buone letture, animo nobile, talento autoassolutorio – ricaverà valore aggiunto dalla coniugazione del proprio benessere con un’apparenza di sostenibilità sociale.
Non la tirerò per le lunghe, per quanto vorrei avvitarmi ancora in questa formidabile contraddizione, e vengo al punto: come si possono chiamare questi luoghI? Sono artefatti come i non-luoghi, ma esclusivi e non popolari, ovvero standardizzati sì, ma su aspettative alte; sono autentici in senso filologico, ma non più dedicati allo scopo originario cui erano destinati pietre, legni, coibentazioni in lana, tetti in scandole di pino e via strologando.
Insomma sono luoghi veri ma finti, finti ma veri e, sinceramente, essendo escluso dal balletto, non so se mi facciano più simpatia gli aristocratici che raggiungono la baita con l’ecologica Toyota Prius od i veri truzzi che, non usi all’ipocrisia, si dirigono al Billionaire in inquinantissimo suv. Ad ogni buon conto, serve un nome: qualcuno telefoni a Marc Augé.