In questi giorni a Cervia, fino al 1° maggio, è in corso il 26° festival internazionale dell’aquilone. Manifestazione in bilico costante, fedele al suo etereo oggetto, il festival romagnolo riesce sempre a fiorire in tempo – sul filo di lana, passatemi la battuta – grazie alla passione dell’organizzatore Claudio Cappelli. Un bel servizio con belle immagini lo trovate in edicola, sul numero di aprile di Airone (tra l’altro, è il numero 300 e se ne viene con uno speciale fotografico che da solo vale la spesa).
Leggendo i vari articoli, scopro che l’aquilone è chiave del progetto d’una turbina eolica planare che, benché richieda gran terreno, promette senz’altro un impatto ambientale ben più sopportabile delle classiche batterie di eliche. L’inventore è Massimo Ippolito, la società progettista è torinese. Qui maggiori informazioni, qui il sito ufficiale. Tra tante curiosità, però, la lettura che più m’ha colpito è un aneddoto storico che può darci un monito significativo: qui, oggi. Gli indian fighter – in India – ed i rokkaku – in Giappone – sono aquiloni da combattimento, con cui vengono svolte gare tradizionali (a Cervia si può avere un assaggio).
Ma il termine combattimento non sempre è valso come sinonimo di gara sportiva. Riporto un brano: “Sembrerà di tornare al Giappone dell’VIII secolo, quando il governatore di una terra sconvolta da terribili conflitti etnici affidò ad un’incruenta guerra d’aquiloni il destino del suo territorio. (…) alla fine l’aquilone che rimase solo in cielo fu decretato vincitore. La contrada che rappresentava governò la regione per un anno intero, fino ad una nuova battaglia aerea”. Mi pare un’ottima idea – spettacolare, divertente, persino telegenica – per sostituire l’alea delle urne con un’altra invero.. aerea. Potremmo provare così, almeno non staremmo a ricontare migliaia di pizzini.
[immagine hackerata, quindi cancellata]
P.S.
Sono rientrato da un paio di giorni. L’improvvisa compressione del tempo – destino d’una famiglia dopo una vacanza mediamente lunga – porta all’effetto imbuto che invariabilmente vanifica il sorriso rilassato che il tempo ozioso ci ha donato. Per ovviare un poco, mi sono occupato di cose materiali (tra l’altro, il resto della famiglia è tornato in spiaggia per due giorni) ed intendo continuare a farlo. Con metodo e lentezza.
Questo spiega come mai non mi sono precipitato qui a scrivere, non ho ancora girellato nella blogopalla, ho giusto smaltito un po’ di mail. Due settimane senza computer ti fanno balenare la realtà: potresti non accenderlo più e probabilmente vivresti meglio. Poi, tra le cose che ho spulciato, segni karmici inequivocabili come questo (l’inadeguatezza del nostro cerebro al multitasking) e questo (troppe pippe a video accecano) mi fanno propendere per una ripresa soffice.
Voglio andare a letto prima, leggere qualche po’ d’inchiostro. Sganciarmi ancor più dall’attualità, ridurre l’informarsi compulsivo. Dare più spazio al simposio; magari, come ieri sera, stare fra esatte parole, con amici. Magari capire che sarebbe bello podcastare questi momenti, ma sai che non vuoi sbatterti. E senti che la tua pigrizia è sana: t’arricchisci, lasci sedimentare. Forse, allora, avrai qualcosa di buono da dire. Vi auguro che non sia poco. Ci si rilegge domenica – inglese caprino – e poi chissà. Intanto, sono contento d’avervi ritrovato.
La fotografia è dell’ottimo John Watson.