Vagando alla ricerca d’intelligenza sul pianeta, per buona sorte se ne trova ancora. Spesso in ambiti estremi, dove menti febbrili in lucido controllo di sè creano provocazione. Oggi ho spolpato uno speciale che il Guardian ha dedicato mesi fa a Robert Crumb e ho guardato con attenzione le foto di Elisabeth Ohlson, segnalate giorni addietro da un amico. Due artisti: maschio / femmina; yankee / nordica; vecchio / giovane… accumunati dall’essere artisti visivi e da un uso produttivo della provocazione.
Così alternativo da lasciare al palo anche l’ambiente underground della West Coast sessantottina “peace & love” che l’aveva eletto guru suo malgrado, Crumb è sempre stato sopra le righe del buon gusto e del politicamente corretto, come “spiega” in quest’immagine creata ad hoc per lo speciale (recuperata tra i molti link di fondo intervista). Alle accuse di machismo e razzismo, così replica (traduzione mia, per quel che vale): “Non direi d’essere un razzista estremo o provare orgoglio o divertirmi all’idea del razzismo, ma siamo tutti cresciuti in questa cultura e tutti abbiamo queste tensioni e penso solo che sia qualcosa con cui bisogna fare i conti. Io cerco di farli in modo umoristico e di stuzzicare il punto più sensibile, dove la gente sente più nervosismo e disagio”. Onesto come solo un artista può essere.
Dal machismo al frocismo, se mi passate la battuta, ecco il lavoro più conosciuto della Ohlson, quell’Ecce Homo che le è costato ostracismo cattolico e benpensante, attacchi personali, una vita quasi blindata. Da un articolo su La Stampa, in occasione dell’esposizione romana durante il gay pride giubilare nel 2000, la fotografa svedese spiega: “Ho riscritto la vita di Gesù in modo che anche i gay possano identificarvisi. In Africa trasformano il Cristo in un nero” ed ancora “come Gesù non aveva un tetto, anche gli omosessuali sono relegati ai margini”. Evangelica come solo un artista sa essere.
Mi chiedo perché solo andando a sfruculiare negl’interstizi si possa creare pensiero costruttivo. Una risposta la trovo in un ambito all’apparenza distante dall’arte. Potenza del paradosso.
Da qualche tempo sono iscritto alla newsletter del Politecnico di Torino, nel patetico tentativo di superare i limiti ormai incrostati che mi fecero essere un perfetto incapace nelle materie scientifiche all’omonimo liceo. Non ci capisco molto ma spesso trovo stimoli intellettuali inediti e qualche storia che vi rilancio qui. Leggendo un’intervista di Mauro Comoglio a Renato Betti, docente di geometria al Politecnico di Milano ed autore d’un libro sul matematico russo Lobacevskij e sull’invenzione delle geometrie non euclidee, inciampo su un’analisi folgorante del presente che spiega benissimo perché la normalità odierna è così sterile. Prima di riportare l’estratto, mi tocca la chiosa. Facciamo così: siccome si parla di scienza, postuliamo che anche il matematico sia un artista. In quest’intervento, dunque, Betti è lucido. Lucido come solo un artista riesce ad essere.
“Certamente è facile dire che la scuola dovrebbe darsi lo scopo di attrezzare gli studenti ad affrontare le difficoltà con lo spirito giusto. E forse è ingeneroso nei confronti dei docenti, che in molti casi si impegnano con grande passione. Di fatto, la scuola fa parte del mondo, una parte importante per chi studia e, nel mondo attuale, più che di atteggiamenti antiscientisti forse bisognerebbe parlare di atteggiamenti anticulturali. Non per buttarla tutta sulle colpe della società e così lavarsi la coscienza, ma mi pare che sia difficile capire come vincere le resistenze di un ambiente che quotidianamente ti offre modelli in cui è solo il risultato che conta e non il percorso che ha condotto a quel risultato, e l’applicazione immediata è l’unica guida e indicatore da tenere sott’occhio.
A me sembra che in questo momento stiano prevalendo alcune categorie d’uso a scapito del rapporto dialettico (come si diceva una volta) con corrispondenti categorie interpretative: viviamo nel mondo delle quantità, del numerico, del digitale e del discreto. Prevale l’analisi sopra la sintesi, la forma rispetto al contenuto. La conoscenza si confonde con l’accesso ai dati: questa è la «cultura da data-base» di cui ho parlato.
L’autentica disgrazia è la visione della scuola come azienda, che implica la conoscenza come profitto, la formazione come un percorso a tappe, in cui basta passare da certe postazioni stabilite per ritirare il premio, il lavoro personale inteso come un’attività meccanica e irriflessa, fatta senza emotività, come se questo richiedesse meno fatica”.